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Damnatio statuarum – di Matteo Cadario

ELZEVIRO – 23 GIUGNO 2020

Damnatio statuarum

di Matteo Cadario


“Elzeviro” è una nuova iniziativa dipartimentale, un esperimento che ha lo scopo di aumentare la circolazione delle idee e il confronto degli argomenti all’interno del Dipartimento. Non ci sarà periodicità, né scelta prefissata dei temi, purché di interesse generale: è una pagina bianca messa a disposizione di tutti, sulla quale possiamo tutti intervenire.
Le proposte di contributo devono essere inviate a: sitowebde.dium@uniud.it.

Damnatio memoriae

 
Nelle recenti discussioni sulla rimozione di statue dai luoghi pubblici si è evocata spesso la pratica romana della damnatio memoriae, un fenomeno complesso che si collega all'abitudine antica a una gestione più "dinamica" dei propri monumenti onorari. Bisogna però distinguere la distruzione "spontanea" nel corso di sommosse popolari dalle forme più meditate di rimozione "controllata" dalle autorità. Nel primo caso era il popolo a vandalizzare le statue secondo uno schema consolidato (abbattimento, mutilazione degli organi sensoriali, trascinamento, oltraggio e dispersione della statua, per esempio nel Tevere). Spettacolarità e ripetitività dei gesti fanno dubitare della spontaneità della folla, suggerendo che a ogni damnatio servisse anche una legittimazione "popolare" sceneggiata dal nuovo potere. Nel secondo caso, più ponderato e prevalente, assistiamo invece al riciclaggio delle statue condannate, rimosse e accantonate in attesa di una rilavorazione o sostituzione del volto, dove in un ritratto romano si concentravano i tratti individuali, e poi della ricollocazione pubblica con una nuova identità. Questa formula aveva il vantaggio di consentire la reversibilità stessa della sanzione, visto che mutate esigenze politiche riportavano talora le statue rimosse nelle posizioni originarie.

La damnatio colpiva anche le iscrizioni, dove i nomi dei condannati erano scalpellati, lasciando però spesso visibile la cancellazione. Questo aspetto introduce il paradosso stesso della damnatio, che condannava l'onorato alla distruzione della memoria, ma voleva in realtà mantenere memoria della condanna, come si vede anche nelle statue e nei rilievi che mostrano i vuoti o i segni di mutilazioni e rilavorazioni. La damnatio non era quindi di solito un gesto iconoclasta compiuto nell'orgasmo di un regime change, ma un atto politico meditato che costringeva le élites a schierarsi (non rimuovere era un rischio), che spesso non escludeva la reversibilità (la prudenza era d'obbligo) e doveva a sua volta generare memoria di sé, senza quindi cancellare mai del tutto il ricordo dei condannati, tanto è vero che oggi ne riconosciamo nomi e volti.

Il bisogno romano di conservare memoria della damnatio ci ricorda che, rimuovendo statue come quelle degli schiavisti Edward Colston e Robert Milligan, si è certo cancellato un onore pubblico conferito a persone che oggi appaiono indegne, ma si è indebolita anche la memoria di quegli onori e dei loro committenti, ossia un documento importante di come la società britannica giudicava i proprietari di schiavi mentre l'abolizionismo vinceva (Milligan) o dopo che aveva già vinto da tempo (Colston). Ogni rimozione cancella infatti di più della singola figura che elimina. Le recenti richieste di rimuovere alcuni monumenti legati al colonialismo italiano potrebbero per esempio aiutare proprio la "rimozione", peraltro già in atto, di quel periodo e dei suoi misfatti dal discorso pubblico. Conoscere e spiegare il contesto storico di un monumento offre invece l’occasione di conservare una memoria più completa e consapevole del passato, senza celebrazioni acritiche né anacronismi etici.

Foto di Tony Webster – CC BY 2.0

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