Copiare in tempo di peste – di Laura Pani
Divulgazione
ELZEVIRO – 16 GIUGNO 2020
Copiare in tempo di peste
di Laura Pani
Nel libro manoscritto il colophon – termine mutuato dall'editoria – è un segmento di testo talora aggiunto dallo scriba al termine della copia dell'intero codice o di una sua parte, contenente informazioni di diversa natura: formule di preghiera, il nome del copista, il luogo, la data e le circostanze della copia. Col passaggio dall'alto al basso medioevo non solo aumenta il numero di manoscritti muniti di colophon, ma i colophon stessi diventano più personali e ricchi di notizie, costituendo così una fonte per la conoscenza sia dei contesti di produzione del libro, sia dello stato sociale e della personalità dei copisti, sia di eventi storici raccontati, per così dire, in tempo reale.
La pandemia di Covid-19 mi ha suggerito di cercare dei colophon in cui fosse fatto esplicito riferimento alle epidemie di peste del basso medioevo e della prima età moderna. In base a un primissimo sondaggio, basato solo su una selezione dei repertori disponibili, ne ho individuati una quarantina; tra questi, un numero non del tutto trascurabile è di mano di studenti o professori universitari (categorie in generale piuttosto rappresentate tra i copisti dei codici bassomedievali).
Si apprende così che alcuni studenti avevano dovuto lasciare la sede degli studi e ritirarsi fuori città per evitare il contagio: uno studente tedesco di diritto dell'Ateneo patavino nell'ottobre del 1400 si trovava a Polverara; nel 1450 uno studente di medicina tornò a Visso (MC) da suo padre, a sua volta medico, per il quale copiò, guarda caso, un Tractatus epidemiae; nel 1485 un altro studente di medicina e astrologia dell'Università di Pavia si trovava a Valenza (AL) «propter pestem, quam Deus dignetur mitigare».
Altrove, invece, l'enfasi è data alla chiusura delle università o all'assenza di studenti.
L'esempio più risalente riguarda proprio la prima epidemia di peste nera e fa parte di una serie di sottoscrizioni con cui un docente di Vercelli, Francesco Agazzi, scandì la copia di un manoscritto: in una di esse dichiara di aver copiato nel 1349, «et eo anno fuit maior mortalitas quam umquam fuerit». Ancora più esplicito è pochi fogli più avanti: qui lamenta di aver iniziato le lezioni il 19 di ottobre avendo in aula non più di 40 studenti contro i 200 abituali, proprio a causa dell'epidemia che solo in quell'anno, dal giorno di Pasqua, nella sola città di Vercelli aveva mietuto 3000 vittime.
Uno studente perugino nel 1435 rimarcò invece l'avvio ritardato delle lezioni del dottore in diritto Giovanni Montesperelli: «et ideo studium fuit tam tarde inchoatum, quia pestis adhuc desinere non videbatur».
Mentre i nostri Atenei programmano le modalità di svolgimento delle lezioni nel prossimo anno accademico e nelle sedi più diverse si fa un gran discutere su didattica di emergenza vs. didattica a distanza, Alberto Asor Rosa ha dedicato a La solitudine delle nostre aule vuote un articolo su Repubblica del 12 giugno, richiamando fin dal titolo uno degli aspetti più desolanti di questi ultimi mesi: le Università deserte, le aule chiuse, i corridoi vuoti e silenziosi; l'assenza, soprattutto, di quello scambio tra persone, docenti e studenti, che dell'Università costituisce fin dal medioevo il motore.
In questo senso, inquietantemente familiare ma anche particolarmente drammatico è il quadro dipinto da un anonimo docente di diritto dello studium di Padova, che nel colophon di un manoscritto ora conservato a Faenza dichiara di non poter proseguire oltre né con la copia di una Lectura super codicem né con le lezioni universitarie:
… sed propter hanc pestem maledictam pro hoc anno amplius non legam etiam propter absentiam studentum. Et hoc fuit die II iunii in vigilia Corporis Christi 1432, qua facte fuerunt generaliter vachationes propter pestilenciam quae acriter invasit hanc civitatem Padue, propter quam recesserunt omnes studentes et duo defuncti sunt.
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