Il luogo più pericoloso del mondo – di Andrea Gardi
Divulgazione
ELZEVIRO – 19 MAGGIO 2020
Il luogo più pericoloso del mondo
di Andrea Gardi
Chi pensa al lavoro di uno studioso di area umanistica ritiene che sia un'occupazione assolutamente tranquilla: il filologo, lo storico, il filosofo, lo studioso di letteratura se ne stanno a casa, leggono libri al loro tavolo, scrivono a mano, guardano fuori dalla finestra, meditano e finalmente maturano l'Opera, ovvero un altro libro che altri loro simili leggono nelle stesse condizioni e con gli stessi scopi, cioè nessuno. La considera insomma un'occupazione nella migliore delle ipotesi sterile e comoda e si chiede per quale motivo qualcuno sia pagato per dedicarvisi. A meno che, ovviamente, l'umanista si butti nella divulgazione, pubblichi libri accattivanti, scriva sui giornali e compaia per televisione: in questi casi, quando cioè divenga famoso e, sperabilmente, ricco, gli viene riconosciuto lo status sociale di VIP e la relativa indispensabilità (come a calciatori, attori e cantanti). Allora diviene anche autorevole sul piano scientifico e dunque in grado di rivelare al comune mortale che cosa insegna la Storia, qual è la Bellezza nell’Arte, come affrontare la Vita.
Anche in questo caso, però, sfugge al comune mortale quale sia il nucleo del lavoro dell'umanista. Come dice Indiana Jones ai suoi studenti, «Il 70% del lavoro dell’archeologo si svolge in biblioteca, facendo ricerche, leggendo». E per altre discipline la percentuale è ancora maggiore. Non si può fare divulgazione, ma neanche insegnare in maniera seria, se non c’è l'attività di ricerca specialistica che solo le biblioteche e gli archivi consentono, perché solo questi luoghi permettono il lavoro di avanzamento della conoscenza che dà senso all'insegnamento e alla divulgazione: altrimenti, basta ripetere ciò che sta sui manuali («È tutto scritto, catalogato», Edoardo Bennato, Quando sarai grande).
Ciò è esattamente quanto ci viene imposto oggi. A causa dell'epidemia, i "luoghi della cultura" sono stati chiusi totalmente dall'8 marzo e, per le riaperture avviate o ventilate, si parla di appuntamenti, prenotazioni, contingentamenti. Il tutto è però pensato soprattutto per i musei e simili, cioè per il turismo a pagamento, l'unico aspetto per il quale la cultura interessi legislatori e opinione pubblica. La ricerca umanistica, ma anche l'istruzione degli studenti nelle nostre discipline, non può concretamente avvenire su prenotazione e con tempi contingentati, perché dipende da una serie di fattori non programmabili: la necessità di verificare una citazione, il seguire la traccia documentaria spesso illusoria che gli archivi forniscono da un fondo all'altro, un'occhiata per capire se un libro serve o no. Se tocco un libro o un documento, e poi questo deve restare fuori consultazione per almeno dieci giorni, perché potrei averlo contaminato, come prescrivono le recenti disposizioni, il mio lavoro e quello di tutti coloro che hanno necessità di (ri)vedere quel libro o documento resta paralizzato; mentre se al supermercato (aperto su prenotazione? su appuntamento?) tocco un pacco di biscotti per vederne gli ingredienti e poi lo rimetto sullo scaffale, il cliente successivo lo tocca a sua volta; né si pone troppi problemi a mangiare una pizza preparata da chissà chi e portata dal rider.
Insomma, la pericolosità sociale del nostro mestiere è pari solo a quella dei giochi per i bambini nei parchi (cui infatti è vietato accedere) e l'unica soluzione concreta che ci viene proposta è quella di non fare, a tempo indeterminato, il 70% del nostro inutile e pericoloso lavoro. Ed è giusto: la ricerca, il mettere in discussioni Certezze e Verità acquisite, è assolutamente pericolosa.
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