Se il fragile rivela il prezioso – di Luca Grion
Divulgazione
ELZEVIRO – 22 MAGGIO 2020
Se il fragile rivela il prezioso
di Luca Grion
La fragilità del bene, oltre che titolo di un bel libro di Martha Nussbaum, sembra essere una verità esistenziale che, in questi tempi di quarantena, ha trovato conferme quanto mai persuasive.
Cosa intende la Nussbaum con quella espressione? In estrema sintesi direi così: che il bene – il bene umano – non è faccenda meramente individuale; soprattutto non è qualcosa che può essere guadagnato attraverso l'ascesi personale e posto al sicuro dai colpi della fortuna. Il bene umano, al contrario, abita "lo spazio del noi" e per questo risulta estremamente fragile. Non solo non possiamo conquistarlo con le nostre mani; non possiamo neppure avere garanzia che non ci venga sottratto.
Pensiamoci un attimo: il bene che calamita il nostro desiderio rimanda, in ultima istanza, a una richiesta di riconoscimento; ciò che nutre la nostra anima e rende buona la nostra vita ha sempre a che fare con il sentirsi accolti, riconosciuti, amati. E qui iniziano i problemi. Le cose, infatti, ce le possiamo procurare in modo autonomo; le relazioni, invece, richiedono il concorso delle parti e si sottraggono ad ogni logica di possesso o di conquista. Non che questo non possa accadere, ma al prezzo di violentare la relazione, riducendo l'altro a semplice cosa di cui disporre.
Il bene che vive della e nella relazione interpersonale ci espone dunque, inevitabilmente, alla ferita dell'altro. L'altro a cui chiediamo riconoscimento può rifiutare il nostro appello; e lo stesso possiamo fare noi nei confronti di chi rivolge a noi analoga richiesta. Il bene umano, alla fin fine, è inevitabilmente precario e, se vogliamo provare a goderne, dobbiamo accettare il rischio e l'incertezza che sempre accompagnano tale ricerca.
Solo teoria? Non credo. Ne ho avuto riprova anche dialogando con i ragazzi a lezione. Parlando di ciò che procura loro maggiore sofferenza in queste lunghe giornate di isolamento forzato, ho constatato che ciò ch'essi avvertono con più struggente nostalgia non sono tanto le cose a cui, a malincuore, hanno dovuto rinunciare, quanto gli affetti rimasti inaccessibili fuori dai cancelli di casa. Se poi lo sguardo passa dal male patito al bene (ri)scoperto, sono ancora le relazioni a fare la differenza all'interno dei pochi metri quadri entro i quali si vive questo tempo sospeso.
La lezione che la vita sembra suggerirci con particolare forza invita dunque a mandare in archivio la pretesa autonomia e autosufficienza di un individuo autocentrato, tutto proteso a massimizzare il proprio interesse personale e a godere del maggior numero di beni possibile. Idea che tanti danni ha fatto alla politica, all'economia e anche all'ecologia. La verità – antropologica – che questa crisi ci sta facendo riscoprire è che, per l'uomo, vivere è con-vivere e che una vita autenticamente umana richiede vicinanza, incontro, relazione. Soprattutto ci ricorda che il bene umano non è qualcosa che può essere ottenuto all'interno di una logica mercantile; non può essere comprato né messo al sicuro in cassaforte. Il bene umano, al contrario, è qualcosa di fragile e può essere sperimentato solo accettando la sfida dell'incontro, il rischio della delusione e la fatica che sempre comporta prendersi cura delle relazioni.
Concludendo: se una cosa questo tempo di quarantena ci ha regalato è l'opportunità di comprendere come l'etica della cura rappresenti il paradigma morale più convincente tra quelli attualmente in circolazione. Non è affatto detto che sia anche il più praticato, ma certo se trovasse più spazio quanto migliori sarebbero le nostre vite.
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