Per un elogio degli uomini-formica – di Chiara Battistella
Insights
ELZEVIRO – 31 MARZO 2020
Per un elogio degli uomini-formica
di Chiara Battistella
In questi giorni inquieti e movimentati, anche i classici greci e latini sembrano essere riemersi dall’oblio, a cui sono stati relegati da tempo, per ritagliarsi un piccolo spazio di visibilità e, forse, chissà, incoraggiare lettori volenterosi ad aprirli o riprenderli in mano. Tra i racconti relativi a epidemie scoppiate nel passato e, segnatamente, nel mondo antico, quello forse più citato (anche letto?) è il resoconto tucidideo della peste di Atene nel secondo libro della Guerra del Peloponneso (menzionato ora anche in un utile articolo di Milena Gabanelli e Luigi Offeddu, ‘Dalla Peste al Coronavirus: come le pandemie hanno cambiato la storia dell’uomo’, nel Dataroom del 24 marzo 2020). Nel capitolo 48, Tucidide, da bravo storico, chiarisce fin da subito le motivazioni e il ‘taglio’ autoptico della sua narrazione: «Io dirò di che genere essa [scil. la peste] sia stata e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati» (trad. di F. Ferrari).
La peste di Atene si può leggere in latino nella famosa riscrittura in versi che ne fa Lucrezio nell’epilogo del suo De rerum natura, in cui rappresenta icasticamente un quadro di desolazione dominato dal dolore e dal disordine, anche morale. Il racconto lucreziano è poi riecheggiato da Virgilio nel terzo libro delle Georgiche a proposito della peste del Nòrico, che decimò il bestiame e persino gli animali selvatici di quella regione e che, nella narrazione georgica, culmina, com’è stato notato, in una vera e propria danza macabra degli animali stessi.
C’è tuttavia un altro racconto che, pur raccogliendo spunti sia lucreziani sia virgiliani, ci trasporta dalla storia al mito e che, in effetti, non mi pare aver ricevuto grande attenzione nel momento presente. Si sente parlare spesso di cosa succederà, sotto vari punti di vista, alla fine dell’epidemia in corso e da quali cambiamenti le nostre vite saranno interessate. Ebbene, Ovidio nelle sue meravigliose Metamorfosi, per quanto non possa davvero aiutarci a rispondere a quegli ossessivi e pur necessari interrogativi, riesce a infondere almeno un po’ di ottimismo nei suoi lettori grazie al potere visionario e, in qualche misura, consolatorio della sua poesia. Nel settimo libro del poema, Eaco, re di Egina – e niente meno che figlio di Giove e avo di Achille – racconta al suo interlocutore di una mortale pestilenza che si era precedentemente abbattuta sul suo popolo per l’ira di Giunone: «non c’era nessuno che potesse porre un freno al male: fra i medici stessi dilagò la strage e i rimedi nuocevano a chi li apprestava» (vv. 561-2, trad. di G. Faranda Villa). In preda alla disperazione, il re scorge sopra una quercia sacra a Giove una lunga fila di formiche intente a trasportare del pesante cibo nelle loro piccole bocche. Così prega Giove, chiedendogli di concedergli altrettanti cittadini per riempire le mura vuote della sua città quante le pazienti formiche sull’albero. Il dio lo esaudisce ed Egina viene ripopolata da nuovi abitanti che ricevono un posto nella città e i terreni rimasti abbandonati. Il re ribattezza quegli uomini con un eloquente nome parlante, “Mirmidoni”, cioè “formiche”: essi infatti «conservano le abitudini di un tempo, sono parchi e lavoratori, costanti nell’accumulare e nel conservare il raccolto» (vv. 656-7).
Con questa splendida metamorfosi si conclude il racconto ovidiano della peste di Egina, in cui, dopo la disgrazia, viene prospettata la possibilità di un futuro operoso e prospero, che non può però prescindere dalle qualità morali di coloro che ne dovranno essere gli autori.
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