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L'occhio volante – di Orietta Lanzarini

ELZEVIRO – 12 MAGGIO 2020

L'occhio volante

di Orietta Lanzarini


“Elzeviro” è una nuova iniziativa dipartimentale, un esperimento che ha lo scopo di aumentare la circolazione delle idee e il confronto degli argomenti all’interno del Dipartimento. Non ci sarà periodicità, né scelta prefissata dei temi, purché di interesse generale: è una pagina bianca messa a disposizione di tutti, sulla quale possiamo tutti intervenire.
Le proposte di contributo devono essere inviate a: sitowebde.dium@uniud.it.

L'occhio volante – di Orietta Lanzarini


Mai come adesso gli occhi sono protagonisti della nostra quotidianità. Basta un giro al supermercato per incrociare – oltre lo scudo sociale, più che sanitario, della mascherina – sguardi che esprimono, meglio delle parole, il senso di ciò che stiamo vivendo. Occhi dubbiosi, infastiditi, rassegnati. Occhi che cercano conforto in altri occhi. Sentimenti desueti, si potrebbe dire. Capita di rado, infatti, com'era abitudine in un tempo vicinissimo, eppure lontanissimo, di vedere persone immerse nello smartphone, ignare di tutto. L'occhio odierno è vigile, scruta e interroga.
Mi è tornata così alla mente un'immagine: un occhio alato, con le "radici" al vento, e un'invocazione, QVID TVM. La medaglia di Matteo de' Pasti coniata per Leon Battista Alberti esprime, più di qualsiasi documento, la sete inestinguibile che avrebbe spinto tanti a cercare, cercare senza (un) fine, in nome di un Umanesimo che trova nella domanda la propria ragione d'essere. Manfredo Tafuri ne ha spiegato il senso in una lezione allo IUAV nel 1993 (M. Tafuri, Le Intercoenales albertiane. Il motto Quid Tum, Venezia 2014), e rileggerne alcuni passaggi mi ha fatto di nuovo pensare a come la didattica a distanza sia e debba essere un mezzo emergenziale, quindi temporaneo. Chi voglia riconoscere in questo mezzo un fine e dunque la promessa di chissà quale futuro di efficienza, ne ha facoltà. Ma la chiave sta proprio in quelle parole: "a distanza". Rivolgendosi agli studenti di fronte a sé, Tafuri osservava: «Quando il vostro occhio coglierà ciò che io vi indico di dover cogliere senza la mia indicazione, il vostro occhio comincerà ad essere educato per la storia dell'arte e dell'architettura. [...] Voi scoprirete di fronte all'opera diretta – non rispetto a fotografie o fotocopie che ne sono l'ombra sbiadita –, qual è il compito che vi attende: affinare l'occhio nel vedere il più possibile, al di là delle indicazioni che vi si dà, perché l'opera è inesauribile.»
Tafuri ci insegnava a educare l'occhio, non a trovare delle risposte – «l'opera è inesauribile» – ma a formulare le domande. Replicare la complessità di questa lezione, di lenta assimilazione, è possibile ai tempi del Covid-19? Tra i suoi effetti collaterali c'è la messa in discussione delle tradizionali modalità d'insegnamento, poco "smart" alla prova dei fatti. Tuttavia, se penso a certe "agilità" comunicative (da ultimo la triste pantomima dei dipinti degli Uffizi costretti a animarsi per assecondare il linguaggio facilone di un noto social network), cresce in me una certezza. Avere gli studenti di fronte a sé non è una condizione negoziabile, specialmente per un piccolo ateneo. Nei loro occhi si riflette l'effetto di ogni nostra parola: interesse, curiosità, ma anche perplessità, noia e persino indifferenza. Una lezione è un evento dinamico: le loro reazioni aiutano a calibrare le informazioni, a incoraggiare un rapporto di fiducia reciproca, e quindi a comunicare con efficacia la complessità di un pensiero, la precisione di un metodo, la bellezza di una soluzione. Valori che dall'aula universitaria ciascuno (docente compreso) può portare con sé, come strumenti utili ai propri scopi.
A distanza si può ancora educare l'occhio degli studenti a volare, come l'occhio albertiano, oltre la superficie delle cose e a vedere in profondità. Ma la superficie dello schermo del mio computer, ora affollata di impersonali acronimi, rimane una barriera attraverso la quale certi valori non passano.

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